La storia della cartiera
ricerca storica e testi a cura di Carlo Pigato
Molti anni fa, il territorio su cui sorge l’attuale «cartiera» era completamente disabitato e in buona parte occupato da acquitrini e paludi, formati dalla Dora, frammisti a boschi e boscaglie.
Torino allora era una piccola città di cinquemila abitanti, racchiusa dentro le mura romane, che la circondavano. Era compresa tra via della Consolata, via Giulio, i Giardini reali, Palazzo Madama, via Accademia delle Scienze, via Santa Teresa, via Cernaia: un quadrato di circa 800 metri di lato.
Gli abitanti della città vivevano di commercio e pedaggi, poiché la città era situata sulla importante «via Francigena», che collegava le città italiane e principalmente Roma alla Francia e al Nord-Europa, di artigianato, per soddisfare le esigenze della popolazione, ma soprattutto di agricoltura e allevamento del bestiame.
Uscendo dalle Porte Palatine o dalla Porta Segusina (all’incrocio di via della Consolata e di via Garibaldi, in direzione di Segusium, l’attuale Susa) e guardando verso il fiume Dora, si poteva notare che il fiume disegnava una piccola valle nel circostante terreno e gli abitanti della città cominciarono a chiamare questa valle Valdoc, che diventerà poi col tempo Valdocco.
Era da poco passato l’anno Mille.
A mano a mano che la città cresceva, la fame di terra portò a colonizzare il territorio intorno alla città, dove tra zone paludose e boschi cominciarono ad estendersi, campi, prati e qualche vigneto. E insieme alle coltivazioni cominciarono a comparire edifici, per lo più in legno, che servivano da ricovero per gli animali e per gli attrezzi e, qualche volta da abitazione per i contadini e i pastori.
Il fiume non era soltanto un pericolo, per le sue piene frequenti, ma anche una risorsa indispensabile. L’acqua poteva essere usata per abbeverare gli animali, per irrigare i campi e, col tempo, anche per far funzionare i mulini da macina, indispensabili per sfamare la popolazione.
Approfittando della conformazione del territorio, che formava un terrazzo lungo la Dora (basta pensare alle pendenze che vi sono ancora oggi fra via San Donato e corso Regina Margherita), venne costruito un canale: il canale della Pellerina (perché era sulla strada dei pellegrini), il cui imbocco ancora oggi è visibile nel parco della Pellerina, che andava dritto verso la porta occidentale della città, la Porta Segusina.
Il canale percorreva tutta la città attraverso quella che cominciò ed essere chiamata «contrada della Dora grossa» (l’attuale via Garibaldi, fino a Palazzo Madama, per poi uscire dalla città e dirigersi verso il Po. Da questo canale, quasi ad ogni isolato, si diramavano piccole «doire», ossia canaletti, che servivano per tenere pulita la città, per dissetare animali, per lavare panni, per portare via la neve durante l’inverno.
Nel Quattrocento, sulla «bealera della Pellerina», venne costruito un martinetto per macinare le spezie e per la lavorazione del rame, che utilizzava la forza idraulica, a cui, col passare degli anni, se ne aggiunsero altri, anche per la lavorazione di panni e del ferro. La zona cominciò ad essere chiamata «Martinetum», da cui deriverà poi il «borgo del Martinetto», tra la parte terminale di via San Donato e Corso Regina Margherita.
Torino, intanto, diventava un secolo dopo capitale del Ducato di Savoia e a mano a mano che si sviluppava l’attività artigianale e cresceva la popolazione, la necessità di acqua per l’agricoltura e per i mulini aumentava e perciò vennero derivate dal canale della Pellerina numerose «bealere», approfittando della conformazione del terreno, che degradava rapidamente verso la Dora. Una di queste divenne il «canale del Martinetto», che dopo varie sistemazioni, trovò la sua collocazione definitiva nel Settecento, in quella che sarebbe diventata via Martinetto in suo onore.
Partiva da via San Donato, percorreva via Martinetto, proseguiva costeggiando la Dora fino in via Fagnano, da dove poi, approssimativamente lungo via Treviso, si dirigeva verso la «fucina delle canne», la fabbrica d’armi situata dove sorge adesso l’Envirenment Park (e dove c’erano le Ferriere), tra corso Gamba, corso Rosai e via Livorno, per incanalarsi poi nel «canale dei Molassi» lungo Strada del Fortino e andare a far girare le ruote della Polveriera e dei Mulini di Borgo Dora.
Il canale, però, allora scorreva in aperta campagna e non fra le case: solo nelle sue vicinanze sorgevano edifici della prima industria torinese (mulini per la macina del grano, per la lavorazione della seta, «affaiterie», le concerie dell’epoca, per la fabbricazione di panni e tessuti), e qualche casa per gli addetti ai lavori e per qualche salariato, in mezzo a cascine, che coltivavano il terreno circostante.
Tutte le prime attività industriali si servivano della forza motrice dell’acqua, in una città in piena espansione, che, dopo il terribile assedio del 1706, è diventata capitale del Regno di Sicilia e del Regno di Sardegna e si affaccia alla grande ribalta della politica europea.
E proprio sul canale del Martinetto nella seconda metà del Settecento, tra gli altri impianti protoindustriali, venne edificata anche una fabbrica di «majolica», che resterà attiva per un secolo circa. E’ attestata sin dal 1781 ed utilizza la forza motrice dell’acqua, per i «masinini per le vernici», le piccole macine che servono per frantumare la materia prima, usata per i colori, minerali, ghiande, bacche, foglie, radici e per la loro mescola.
L’edificio subisce numerosi rimaneggiamenti, nel corso del tempo, mentre intorno crescono le industrie e cominciano ad infittirsi anche le abitazioni, ma occorrerà aspettare la grande trasformazione di metà Ottocento, con l’abbattimento dei bastioni e della cittadella, perché l’espansione residenziale investisse l’antica Valdoc, e saldasse il «Borgo San Donato», al «Borgo del Martinetto».
Tuttavia, la presenza del «Canale del Martinetto» condizionerà ancora a lungo l’area, privilegiando gli immensi impianti industriali, come le Ferriere Fiat e la Michelin, la piccola e media industria e le «boite» degli artigiani. Così alla fabbrica di «majolica» subentra a metà Ottocento il laboratorio di Carlo Laurenti, che si trasforma ben presto nella «Fabbrica di lime e raspe», anch’essa destinata a durare circa un secolo, e che modellerà la struttura dell’edificio, così com’è ancora parzialmente visibile adesso, attraverso ampliamenti e sopraelevazioni, ma sempre mantenendone la struttura originaria.
Nel Novecento, il piano regolatore prevede che l’edificio venga almeno parzialmente demolito, per essere attraversato da via Arezzo, ma non se ne fa nulla e così rimane sul fianco della «cartiera» l’intestazione della via, che proprio lì finisce.
Ma non è tanto il Comune che insidia la fabbrica metalmeccanica, che esporta una quota rilevante della sua produzione, quanto l’economia, con il suo continuo progresso tecnologico: nel 1956 la gloriosa ditta Laurenti è costretta alla chiusura.
L’edificio cade in abbandono sino a quando, qualche anno dopo, diventa la sede di raccolta e deposito della Cartiera di San Cesario, che la renderà popolare in quartiere. Diventa persino il set ideale di una scena del film di Carlo Lizzani “Torina nera” interpretato da Bud Spencer del 1972. Dal 1976 vi si installa la Cartimbal, impresa specializzata nella carta per imballaggi, che la abbandona definitivamente all’inizio degli anni ’90.
La storia sta per concludersi: il Comune di Torino rileva l’edificio e decide di utilizzarlo per servizi di carattere sociale, in una zona densamente popolata e degradata e nel 2000 prende avvio il progetto di riqualificazione con il “Concorso INU WWF di partecipazione educativa”. Dapprima viene ristruttura l’ala sinistra dell’edificio, trasformata in una scuola per l’infanzia, contigua alla scuola elementare “De Filippo”, situata nell’ex stabilimento Paracchi, poi nell’ala destra viene costruito il centro giovanile polifuzionale, che, non a caso, è stato chiamato la “Cartiera”.